Non è dunque un libro di memorie, confezionato prima di ritirarsi in buon ordine al termine di una lunga carriera di faccendiere, o lobbista, o “triangolatore”, o “uomo che collega” (lui preferisce “stimolatore d’intelligenze”). La corsa continua. Era iniziata tanto tempo fa, quando Bisignani era un giovane giornalista cresciuto all’ombra di poteri forti davvero, i Rocca della Techind, i Ferruzzi della Montedison, Giulio Andreotti di una Dc romana, siciliana e papalina, lo Ior, la P2 di Licio Gelli, Gaetano Stammati, Roberto Calvi, Silvio Berlusconi.
Negli anni Novanta attraversa la stagione di Mani pulite incassando una condanna (3 anni e 4 mesi per aver smistato la maxi-tangente Enimont, ridotti in Cassazione a 2 anni e 8 mesi), eppure resta il custode silenzioso di segreti ancor oggi non svelati: personaggi mai entrati nelle inchieste (come “Omissis”, ovvero Giulio Andreotti); miliardi sfuggiti anche ad Antonio Di Pietro (tra il 1991 e il 1993, Bisignani ha ritirato dallo Ior, in contanti, 12,4 miliardi di lire da un conto su cui ne sono passati almeno 23). Conosce bene il potere. Sa che in Italia c’è quello visibile, fatto di istituzioni e cariche elettive, e quello invisibile, fatto di relazioni. Su questo ha sempre lavorato.
Perché il potere “si trasmette e funziona anche in luoghi meno riconoscibili e controllabili, si moltiplica e può riprodursi in maniera nascosta e a volte ambigua e misteriosa”. I “luoghi meno controllabili” in cui si muove a occhi chiusi sono, per esempio, “l’ufficio legislativo del Quirinale, quello di bilancio della Ragioneria generale dello Stato e della Protezione civile. I fondi riservati dei servizi segreti, i centri spesa degli enti locali”. È questa la sua arte di tessitore: pilotare nomine, costruire carriere, decidere gli organigrammi del potere. Creare alti funzionari e generali. Gli affari poi seguiranno, come l’intendenza di Napoleone. Ne cita alcuni: il passaggio (fallito ) dei periodici Rcs al gruppo Farina di cui è manager e (inedito) il tentato acquisto dagli Agnelli del quotidiano La Stampa, in alleanza con Gianni Consorte, nel 2005 quando era ancora ai vertici di Unipol.
Per il resto, il libro è pieno di aneddoti utilissimi a costruire una fenomenologia del potere italiano, opaco e occulto: una Repubblica fondata sul ricatto. Ma chi è a caccia di rivelazioni resterà deluso. Ci sono tante piccole storie, alcune vendette, rese dei conti, messaggi in bottiglia, avvisi ai naviganti, pizzini. E una glorificazione: quella di Andreotti, nume tutelare di “Bisi”. Ecco come lo racconta, il giorno dell’arresto di Totò Riina, nel salotto di Sandra Carraro al Gianicolo: “Commentò stupito: ‘Chi se lo sarebbe potuto immaginare che il capo della mafia potesse indossare una giacca di tweed verde come se fosse in un circolo inglese?’. Poi continuò tranquillamente la partita a carte”.
Allinea ipotesi assurde, al limite del depistaggio: “Falcone sarebbe stato eliminato perché collaborava a una spinosa indagine della magistratura russa sui finanziamenti del Kgb al Partito comunista”. Poi, per dare sale al libro, dispensa qualche cattiveria: per Franco Bernabè di Telecom, per Alessandro Profumo di Unicredit, per Ferruccio de Bortoli del Corriere, per Cesare Geronzi (“Ho trovato davvero ingeneroso che abbia banalizzato e misconosciuto il ruolo di Andreotti, a cui deve gran parte della sua fortuna”). E per Angelino Alfano, accusato di aver tramato contro Silvio (ma non c’era anche “Bisi” tra coloro che hanno lavorato sotto traccia per il dopo-Berlusconi?).
In un libro come questo, però, le assenze sono più importanti delle presenze. Mai citato Paolo Scaroni di Eni. Neppure una riga per Enrico Cucchiani di Intesa Sanpaolo. Luca Cordero di Montezemolo non pervenuto.
Il Fatto Quotidiano, 29 Maggio 2013